Qui si scrive il futuro. Non solo di chi cresce e vive e invecchia in Italia. Anche il futuro del comparto assicurativo.
Lo dico subito: non avrebbe alcun senso accettare un ruolo di supplenza.
Sarebbe non solo riduttivo, persino irresponsabile. Se si pensa a quello di cui l'assicurazione è stata capace, nella compagine sociale, nel progresso, economico, civile, di usi e abitudini. C'è una storia, insomma, che rivendica la stessa capacità, coraggio e razionalità che le appartiene per natura. Che ci appartiene.
Meglio non chiedere per favore
La salute non è più solo sinonimo di ricchezza né tanto meno un lusso. Oggi la salute è lo strumento indispensabile per poter esercitare un'attività lavorativa e condurre un'esistenza adeguata.
Già nel 2000, ricevendo il premio Nobel Amartya Sen sottolineava come il ben-essere andasse inteso come diritto elementare del cittadino, quel bene da difendere quale requisito necessario a una società che viva, cresca e progredisca.
In una visione di questo tipo tutte le opposizioni, le antinomie quali vita e lavoro, scompaiono per essere assorbite in un'entità unica: quella dell'esistenza.
Diventa chiaro allora che welfare, per usare la parola più appropriata, riguarda certamente la gestione della malattia, ma immediatamente anche temi come la disoccupazione e altri eventi sociali di rilievo per la vita del singolo, così come della collettività.
L'idea insomma è quella di favorire la qualità della vita del singolo che è soggetto attivo nel contesto pubblico, in quello privato, lavorativo, degli affetti.
I bisogni
L'Italia è un paese che sta progressivamente invecchiando, un numero crescente di cittadini diventano poveri, la disoccupazione e la precarietà del lavoro colpiscono soprattutto i giovani. A riconoscerlo, dati alla mano, è l'ISTAT.
Non solo: a fronte di una spesa sociale cresciuta costantemente, la distribuzione delle risorse non è stata ben calibrata: l'80% viene destinata a spesa sanitaria e pensionistica, senza che restino risorse per quelli che vengono indicati come "nuovi rischi", povertà e disoccupazione in testa.
Insomma i 478 i miliardi di euro di spesa pubblica annua in Italia per la protezione sociale non bastano. Né sembrano alleviare troppo il quadro faticoso gli oltre 70 che restano a carico delle famiglie. Una voce che contempla sanità, ma anche istruzione e servizi c.d. long term care.
Quali risposte?
Innanzitutto si cerca quanto più possibile di affiancare il welfare pubblico con il «secondo welfare», secondo la definizione oggi corrente*. Una forma di protezione sociale, dunque, ma integrativa e volontaria, che viene erogata da diversi soggetti che, pur non essendo pubblici, sono da tempo attivi in ambito di politiche sociali.
Ed è esattamente qui che si aprono gli spazi di maggior interesse per il settore assicurativo.
Se il welfare pubblico agisce sulle emergenze più macroscopiche - infermità, disabilità, disoccupazione, spetta a questo «secondo welfare» di vincere non solo la scommessa quotidiana della tranquillità, ma anche di innescare un cambiamento di mentalità, peraltro già in atto: quello che punta al benessere come condizione stabile e dunque agli interventi in via preventiva e conservativa, non nell'emergenza e nell'urgenza.
Le aspettative
Gli italiani già lo sanno. Così nelle aziende cresce la richiesta di servizi di welfare. Lo stress rappresenta lo spettro per un numero di italiani sempre maggiore (ben l'89% degli intervistati secondo l'Osservatorio Reale Mutua), a fronte di un sistema sanitario nazionale sempre più affaticato e a cui ricorrere quando ormai la malattia è conclamata, ecco che studiare una strada per affrontare il tema della salute in senso preventivo e conservativo diventa il vero plus e una lettura capace di sintonizzarsi con le reali esigenze concrete attuali.
Nuove emergenze sociali in testa: ovvero disoccupazione, flessibilità lavorativa, povertà, emarginazione, ma anche vecchiaia.
A questi in molti rispondono con una sorta di faticoso "welfare casalingo", una sorta di tessuto di solidarietà che pure pesa sulle donne, indebolendone la forza sul fronte del lavoro e chiamando in causa, insieme a nonni, zii, anche badanti e baby-sitter più o meno specializzate.
Rispetto a questo tuttavia la domanda dei soggetti tende a spostarsi verso una richiesta di aiuto che rientri nei benefit d'azienda, per i dipendenti. Insomma il "secondo welfare", quello promosso e incentivato a favore di chi lavora da parte di imprenditori privati, svolge un ruolo centrale sia di richiamo, che di fedeltà.
Ragione che ha spinto moltissime PMI in Italia ad imitare le scelte dei grandi gruppi, usando il welfare aziendale come strumento di miglioramento.
Non di soli buoni pasto
Dentro al welfare aziendale
La storia è cominciata da un po'. Le compagnie assicurative sono state tra le prima a introdurre questi benefit nelle proprie organizzazioni, innescando così un modello non solo virtuale, ma anche virtuoso di osservazione e conoscenza.
Una sorta di buon laboratorio per testare e rafforzare la capacità di garantire un livello di benessere dei dipendenti tale da migliorare la loro esistenza dentro e fuori l'azienda. Esempio lampante è stato il Fondo unico nazionale per l'assicurazione contro i rischi di non autosufficienza istituito già nel 2005.
Poi, certamente, le leggi di stabilità 2016 e 2017 hanno ampliato lo spazio di intervento del settore assicurativo nell'abito dei piani di welfare aziendale italiane, innescando così con più vigore, spinto anche dalla crisi economica e dalle necessità di supplire alle défaillance del comparto pubblico, soluzioni importanti e innovative.
Il merito, da noi, spetta in gran parte alla logica illuminata di Adriano Olivetti che elaborò per primo il concetto di "azienda del bene", entità capace di sposare profitto e felicità.
Né si può negare l'evidenza: un'azienda con impiegati soddisfatti aumenta fatturato e stabilità.
Si parla sempre di più di umanesimo del lavoro.
Alla parola benessere viene associata quella di felicità. E la felicità fa così il suo ingresso in azienda. In carne e ossa, possiamo dire. A questa finalità viene infatti creata una figura, quella del welfare manager, che a competenze economiche associa una dimensione pedagogica precisa.
Sono tre, per esempio, le macro aree di intervento identificate come predominanti dal Welfare Index PMI — Rapporto 2018**
- sanità e assistenza;
- conciliazione con la vita familiare e facilitazione al lavoro;
- giovani, formazione, sostegno alla mobilità sociale.
Innovazioni ci sono state anche a livello normativo.
È ora possibile infatti trattare come tema di contrattazione aziendale, accanto alle prestazioni di welfare più tradizionali - istruzione, educazione in testa, insieme all'assistenza sanitaria -anche i contributi che il datore versi sia per le casse assistenziali che per i fondi di previdenza.
Rilevante anche la facoltà di offrire - e questo a partire dal 2017 - la c.d. long term care e dread disease (e la defiscalizzazione è stata posta non più al massimale di 258 € per dipendente, invece senza limite).
Conquiste, certo, importanti, che parlano di un settore, quello dell'impresa, capace di dialogare anche con la compagine assicurativa, ideando e escogitando insieme degli strumenti duttili, pratici, al contempo però dotati di un' "anima" nella misura stessa in cui parlano, appunto, di uno stato d'essere, d'una rassicurazione sul futuro, che rende il tempo presente più semplice e fidelizza al mondo aziendale.
Un ruolo costruttivo e propulsivo
Qualche dubbio tuttavia permane.
«È difficile prevedere in che misura le prestazioni offerte dal "secondo" welfare potranno integrare efficacemente i servizi tradizionalmente offerti dal welfare pubblico, d'altronde quello italiano è un sistema ancora piuttosto giovane, dalle notevoli potenzialità, che si caratterizza per prassi molto disomogenee e quindi difficilmente confrontabili tra loro», scrive Severo Cardone, aggiungendo però che «nel tempo il welfare aziendale può davvero rappresentare una sorta di panacea in grado di coinvolgere tutti gli attori coinvolti».
E come fare perché accada?
Potenziando l'offerta di welfare privato. Un'offerta che può e deve provenire dal nostro sistema assicurativo.
Non è un caso se proprio in ambito aziendale se ne sono sviluppate molteplici forme, evidenziando una duttilità e una "creatività" che consente davvero di costruire una risposta su misura e adeguata alle esigenze.
Esigenze che sono davvero multiformi e anche dinamiche, tali cioè da modificarsi nelle diverse fasi di vita delle persone.
Fanno così ingresso nei nostri dialoghi espressioni come:
- "conto welfare", che si verifica quando un'azienda destina un budget di servizi di welfare per la totalità o singole categorie di collaboratori, che possono però scegliere in quali servizi spendere il proprio contributo
- "welfare partecipato", se le aziende negoziano con i sindacati elementi di produttività e qualora gli obiettivi vengano centrati, le risorse economiche derivanti dall'incremento vengono riversate ai dipendenti sotto forma di servizi
- "flexible benefit", quando il collaboratore decide verso quali servizi offerti orientarsi
Cito questi esempi a dimostrazione del fatto che, conoscendo queste politiche aziendali, orientandosi nello spazio sottile che intreccia ambito lavorativo e esigenze fisiche, emotive personali, diventa più mirato il compito di chi a quest'area destina servizi e prodotti.
Ma i privati…
Una recente ricerca del colosso della consulenza EY (condotta su 14 compagnie che operano in Italia e coprono circa il 90% della raccolta premi health insurance) ha messo nero su bianco la situazione dei privati cittadini.
A fronte di una contrazione spaventosa della capacità assistenziale del sistema sanitario nazionale negli ultimi dieci anni - dal 92% al 77% della popolazione per intendersi - nel 2016, ben 13,5 milioni di persone hanno fatto ricorso a cure private (+2%). Nel decennio che va dal 2005 e al 2015, la spesa sanitaria privata è passata da 25 a 34,5 miliardi. Ma di questa solo il 13% è stata intermediata.
Ciò significa che l'87% di questa cifra è stato pagato di tasca propria.
A tutt'oggi l'83% degli italiani non dispone di una forma di sanità integrativa e il 62% resta non interessato a sottoscrivere una polizza assicurativa.
Eppure oltre il 50% delle compagnie intervistate da EY ha rilevato, nel corso dell'ultimo anno, un andamento molto positivo della sottoscrizione di nuove polizze.
Com'è possibile una simile discrepanza?
Quest'area "grigia" impone a noi assicuratori di concentrare meglio le nostre forze e stimolare l'impiego di strumenti e linguaggi più agili per scuotere tale stato dei fatti.
Abbiamo molti assi nella manica
Lo sappiamo, moltissimi di noi già lo sanno dunque.
Mentre lo Stato "abdica" di fatto, riducendo il suo peso alle voci "prestazioni sanitarie e pensionistiche" devono essere le compagnie assicurative a riempire il fossato e rispondere alla domanda, sensibilizzando con maggior capacità e forza gli utenti circa le conseguenze che una disattenzione a questi temi porterà.
Conseguenze d'impatto persino mostruoso. Al pari di catastrofi naturali e ambientali. Non meno.
Siamo vulnerabili, insomma.
Molto vulnerabili. Ed è un dato che resta a livelli importanti.
Secondo una stima consueta, su scala da uno a 10, lo scorso anno si è attestato a livello 2,750.
Una recente ricerca promossa dall'Ania, ha anzi evidenziato che tre italiani su cinque hanno problemi economici: il 40,1% delle famiglie dichiara di arrivare a fine mese con alcune difficoltà, il 13,3% con molta difficoltà, mentre il 7,9% degli intervistati non ce la fa proprio. Il 16,5% delle famiglie non sarebbe in grado di far fronte a una spesa imprevista importante, nell'ordine convenzionale di 700 euro.
Vedi alla voce: prevenzione
Tale scenario tuttavia può e deve cambiare, e per mutare sensibilmente serve una "educazione al rischio", un orientamento più pragmatico, di programmazione finanziaria, che induca il singolo a prevenire e quindi a gestire in anticipo potenziali problematiche future.
Non stupisce allora che, sempre stando ai dati Ania, l'andamento delle adesioni alle forme pensionistiche complementari mantenga il graduale ritmo di crescita già. Il numero degli iscritti alla fine dello scorso anno è arrivato a sfiorare gli 8 milioni, in aumento del 7,6% rispetto all'anno precedente.
Insomma lo spazio c'è e può, deve essere usato con capacità. Non in funzione meramente economica, ma esattamente orientativa. Una funzione che l'assicurativo ha da sempre avocato a sé, che lo caratterizza e lo stimola.
Sono settori questi, tra l'altro, in cui risultano molto efficaci soluzioni collettive. La legge dei grandi numeri riduce non solo i costi, ma anche i rischi.
Spazio alle start up
Approdiamo così all'altro tema estremamente interessante, che riguarda il modo attraverso cui le compagnie possono trovare soluzioni all'avanguardia e quindi migliori, ma a contenendo i costi.
L'orientamento che si va affermando ormai da qualche anno è di promuovere l'innovazione e le tecnologie emergenti.
Come?
Collaborando con le startup innovative, scegliendo quelle la cui caratteristica specifica è di sviluppare soluzioni legate ai settori della prevenzione, dell'accessibilità alle cure e del trattamento.
Conclusioni
Il quadro è dunque delineato. A figurarselo su un grande mappamondo, sembra di poter identificare, segnate dai differenti colori, le macro aree di intervento. Spazi che sembrano enormi ma che, a ben guardare, se ci si avvicina con una lente d'ingrandimento immaginaria, offrono una somma differente e complessa di visi, corpi, pensiero, attese, sogni, desideri, stati d'animo. Persone, insomma. Infinite, soggettive, identiche e diversissime. Noi. E loro. E il futuro come grande sfida, dinnanzi, per tutti.
Anna Fasoli
Vicepresidente UEA
* Daniela Dato, Savero Cardone, Welfare manager, benessere e cura, FrancoAngeli, p.39
** https://www.welfareindexpmi.it/rapporto-2018/